Quanti altri Satnam Singh?

La vicenda di Satnam Singh campeggia in questi giorni nei titoli di tutti i mezzi d’informazione come un fatto di eccezionale disumanità, stigmatizzato da tutti.

Ciò che purtroppo non suscita altrettanto scandalo è che la tragica fine del giovane bracciante indiano rappresenta la punta estrema di un fenomeno che tocca ogni giorno migliaia di lavoratori senza diritti.

Chi, come noi, si occupa di migranti stranieri sopravvissuti a tortura, assiste quotidianamente al racconto di persone vittime di “infortuni” più o meno gravi, che solo casualmente non hanno avuto lo stesso drammatico epilogo. Questi episodi non vengono quasi mai denunciati per paura di perdere quel posto di lavoro, per quanto sottopagato e senza tutele.

Dal nostro sia pur parziale osservatorio, come operatori di Medici contro la Tortura, sentiamo il dovere di denunciare questa ordinaria disumanità e il progressivo imbarbarimento di un mondo del lavoro che lucra sullo stato di assoluta sudditanza di chi non ha accesso ad alcuna forma di cittadinanza.

Lo staff di MCT

Riportiamo l’articolo “Il caporalato e la morte di Satnam Singh” pubblicato su cittanuova.it il 20 Giugno 2024 che riteniamo essere una descrizione accurata dei fatti.

Si chiamava Satnam Singh e lavorava in una delle centinaia di aziende agricole della pianura pontina, precisamente a Borgo Santa Maria, nella periferia di Latina. Il giovane aveva soltanto 31 anni e viveva con sua moglie a Borgo Bainsizza, non molto lontano dal luogo nel quale lavorava.

La dinamica dell’incidente che ha causato la morte del giovane bracciante indiano è ancora tutta da appurare ma, quella che conosciamo con certezza, è la disumanità con la quale i datori di lavoro e i caporali hanno trattato il giovane dopo l’incidente. Satnam, infatti, ha perso il braccio mentre lavorava nei campi e, i datori di lavoro, invece che chiamare i soccorsi lo hanno caricato su un furgone insieme alla moglie, anche lei bracciante nella stessa azienda, portando entrambi davanti il luogo nel quale la coppia viveva. Non è ancora certo il motivo della scelta dei padroni, probabilmente dettata dal fatto che il bracciante stesse lavorando senza un regolare contratto.

Secondo Laura Hardeep Kaur, sindacalista Cgil intervistata da Repubblica, gli indiani presenti nell’Agro Pontino sono oltre ventimila, ma la maggior parte di essi è irregolare e non viene censita. Tuttavia, queste persone vengono assunte nelle aziende agricole che, a causa della loro condizione, li sfruttano, così come dimostrato dall’inchiesta Commodo della procura di Latina e dai sempre più ricorrenti fatti di cronaca nera che negli ultimi anni si sono susseguiti nella provincia del basso Lazio.

Satnam non aveva un regolare contratto di lavoro e svolgeva la propria professione senza alcun tipo di tutela, sottopagato e sfruttato. Il sindacato Cgil denuncia da anni le condizioni nelle quali i lavoratori stranieri nel settore agricolo dell’Agro Pontino sono costretti a lavorare, una lotta infinita che va avanti ormai da quasi 10 anni, quando le prime denunce degli sfruttati hanno iniziato a scoperchiare il vaso di pandora.

Dopo la morte del giovane bracciante, la segretaria confederale della Cgil, Maria Grazia Gabrielli, ha fatto un riassunto brutale sulle condizioni dei lavoratori agricoli della pianura pontina: «Un fatto di una inaudita brutalità frutto del sistema del caporalato e dell’irregolarità in cui releghiamo migliaia di migranti che arrivano nel nostro Paese in cerca di speranza. Schiavi della società contemporanea, irregolari, senza permesso di soggiorno, e quindi più ricattabili da chi considera il lavoro solo un profitto e i diritti, come quello all’assistenza, solo degli ostacoli». «Lo sfruttamento nei campi – aggiunge Gabrielli – si traduce molto spesso in salari da fame, in ritmi e in condizioni di lavoro insicure e inumane, in violenze psicologiche e fisiche, che purtroppo sfociano anche in terribili accadimenti come quello di Latina».

Dalle prime denunce arrivate una decina di anni fa a oggi, il caporalato si è evoluto, adattandosi per creare un vero e proprio sistema collaudato di sfruttamento della manodopera. In tal senso è interessante ricordare l’analisi del VI Rapporto sulle agromafie della Fondazione Placido Rizzotto che in merito riporta un quadro agghiacciante: «Interi settori di produzione vengono “delegati” ai caporali, attraverso la creazione di cooperative spurie e l’apertura di finte partite IVA, strumenti attraverso i quali i caporali, a loro volta, “subappaltano” pezzi di produzione, irrimediabilmente incardinata sullo sfruttamento e l’intermediazione illecita di manodopera. Appare pertanto chiaro che lo sfruttamento lavorativo e il caporalato viene perpetrato attraverso nuovi e più complessi meccanismi che vedono il coinvolgimento di attori qualificati (i cosiddetti “colletti bianchi”) ed in generale figure in grado di mascherare l’illegalità attraverso un “gioco di scatole cinesi”, che rende ancor più complicata la prevenzione, l’individuazione e la conseguente repressione del fenomeno».

In generale il caporalato della pianura pontina coinvolge perlopiù stranieri, talvolta irregolari, i quali non vengono regolarizzati e ricevono paghe al di sotto della cifra richiesta dai contratti collettivi di categoria.